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Proteggere l’Amazzonia, senza ipocrisie

La situazione brasiliana è emblematica: servono nuovi strumenti per salvaguardare biodiversità e diritti umani. L'articolo in Ecoscienza 4/2

La distruzione del patrimonio naturale va affrontata avendo presente un quadro complesso e superando visioni distorte e manipolazioni. La situazione brasiliana è emblematica della necessità di trovare nuovi strumenti per un nuovo equilibrio, che salvaguardi insieme la biodiversità e i diritti umani. Articolo in Ecoscienza 4/2019.

Divisione Omicidi: l’insegna è ben visibile su un grande palazzo nel centro di Belem, capitale dello stato del Parà, dove comincia la grande regione amazzonica.
È un triste biglietto da visita di quest’area del Brasile, paese in cui lo scorso anno sono stati uccisi 271 ambientalisti, un terribile monito per chi vuole proteggere la foresta e i suoi abitanti, umani o meno che siano.
Belem è una delle città al mondo con il più alto tasso di omicidi, e da qui sono partiti e partono i progetti per deforestare, per poi aprire al pascolo o a nuovi sfruttamenti minerari.
Il 60-70% della deforestazione è responsabilità del pascolo, a sua volta forse l’industria più controversa del Brasile, primo produttore al mondo di carne, dove i prestiti bancari vengono erogati in funzione del numero di animali che ogni allevatore dichiara; nessuno può verificare questo numero, e cosi l’allevamento è fonte di truffe, pulizia dei traffici illeciti e soprattutto di potere, di grande potere.
In Brasile è obbligatorio recarsi a votare, il clientelismo è endemico e i politici hanno il vitalizio anche se eletti a livello locale.
In un contesto di questo tipo va letto il disastro che sta avvenendo in Amazzonia.

Nello stato del Parà, grande come Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna messe assieme, vivono 7 milioni di persone, nell’altro grande stato, l’Amazonas ne vivono 4, in un paese di 203 milioni di abitanti.
E qui sta un punto centrale; la stragrande maggioranza dei brasiliani vive a sud, sulla costa e nei grandi agglomerati urbani, e vede l’Amazzonia come qualcosa di molto lontano dalle loro vite. Una recente indagine ha fatto emergere come la maggioranza dei brasiliani pensi che in Amazzonia ci siano i leoni e questo la dice lunga rispetto a dove siamo, a livello globale, sul fronte della consapevolezza ambientale.
Eppure l’ecosistema amazzonico, tra le più potenti risorse del pianeta in termini di risorse naturali, di compensazione dell’effetto serra, al di là delle ricchezze naturalistiche legate all’enorme estensione forestale, è un territorio molto ambito per il suo sfruttamento commerciale, sia per le ricchezze del sottosuolo (per le risorse minerarie), sia in superficie (per lo sfruttamento di legname e per l’edilizia che erode parte della foresta per costruzioni).

Se non bastasse la distruzione progressiva di porzioni sempre più allarmanti del patrimonio naturale da parte di compagnie commerciali, anche la popolazione che vive nella foresta o ai suoi margini, non trovando più sufficienti risorse per l’autosostentamento delle proprie famiglie, trova più conveniente abbattere piante per vendere legname, oppure disboscare il territorio per poi bruciarlo e vivere di agricoltura di sussistenza, più redditizia e conveniente in termini alimentari ed economici, oppure per allevare bovini, operazione questa che contribuisce all’ulteriore degradazione e desertificazione della foresta stessa.
La foresta Amazzonica, è sia un “polmone” naturale per il pianeta – dato che lo scambio anidride carbonica/ossigeno è una delle funzioni naturali massive di quest’area, di cruciale importanza per l’intera umanità – sia un “magazzino” naturale di CO2, che attraverso il processo naturale della vita delle piante e della loro crescita viene via via immagazzinata e fissata all’interno della corteccia dei fusti delle piante (e che di conseguenza non si disperde). La quota di CO2 immagazzinata è tanto più ampia quanto più la pianta è adulta, e tanto più la sua conformazione (estensione dei rami e della propria fronda) favorisce tale processo (numerosità delle foglie e dimensioni della pianta). In questo senso, si può ulteriormente capire quanto è grande il danno derivante dalla distruzione forestale.

Raccontare del cambiamento climatico è tuttavia una impresa immane, per chi ancora oggi deve mettere assieme a fatica il pranzo con la cena. È ripartita la corsa all’oro in Amazzonia, con l’arrivo nella regione di spregiudicati personaggi pronti a tutto per pochi grammi del metallo giallo, pronti a inquinare i fiumi, che qui sono la vita per le comunità locali e per tutto l’enorme bacino amazzonico. Il Rio delle Amazzoni è impressionante, l’estuario è largo 240 km, e in molti punti la sua larghezza è di 50/60 km, impedendo la costruzione di ponti e rappresentando davvero il cuore di questa parte del mondo.
Impressionante quando questo fiume, a un certo punto, scontrandosi con l’oceano, non vuole smettere di essere fiume e si scatena una violenza inaudita, creando quel fenomeno conosciuto come pororoco, con onde alte fino a dieci metri, una lotta tra il fiume e il mare, tra l’acqua dolce e l’acqua salata, tra 2 fiumi che non si vogliono mischiare e corrono paralleli, con due colori diversi, uniti ma divisi fino allo scontro finale.

All’aeroporto di Macapa, capitale dello stato dell’Amapa, sull’equatore, il gatto Silvestro insegue Titti e i pochi viaggiatori, in una sala d’attesa che sembra una fermata dell’autostrada, sono incantati. Incredibile come in queste realtà la televisione sia ancora la finestra sul mondo; il confine tra estasi da gatto Silvestro e manipolazione è sempre molto sottile. Quando il gatto lascia il posto a notizie sui drammi del mondo, il rischio che la televisione diventi la realtà è molto forte. È forte per questa gente, così come per tante altre persone nel mondo che non sono in grado di contestualizzare ed elaborare le notizie. Non sono in grado: quante volte si usa questo odioso modo di descrivere visioni diverse dalle nostre; e se fossimo noi a non essere in grado di capire, o peggio, a non aver capito nulla?

L’Europa era una enorme foresta, così come nel piccolo, la pianura Padana, distrutte prima per l’agricoltura e il pascolo e poi per i grandi insediamenti urbani e industriali. Ora chiediamo al mondo di proteggere ciò che noi abbiamo già distrutto. È difficile, anche dialetticamente, controbattere questa riflessione, soprattutto se non si cambiano i paradigmi interpretativi. In Amazzonia, cosi come nei villaggi nella foresta di ogni parte del mondo, la vita è difficilissima, la natura è fonte di sostentamento, ma è anche minaccia continua, come quando, addentrandomi in un’area impenetrabile, mi dicono di stare molto attento al giaguaro e all’anaconda.
Dalle città ricche è facile parlare di sostenibilità, e si deve continuare a farlo, ma per convincere i brasiliani e gli altri paesi che ancora hanno questi tesori di biodiversità a tutelarli, va creato un fondo globale, sostenuto da tutti gli altri paesi che hanno già distrutto le proprie riserve di biodiversità e che in questo modo potrebbero anche, almeno parzialmente, farsi carico delle proprie colpe, se di colpe si può parlare. È un tema enorme, la conservazione, la democrazia, lo sviluppo, i diritti minimi di tutti i cittadini del pianeta.
Letture superficiali e approssimative servono a poco.
Bolsonaro non è certo un presidente illuminato che può indicare una via innovativa, avendo svuotato di risorse tutte le istituzioni che si occupano di ambiente, ma a maggior ragione va individuato un percorso diverso. Offrire un’elemosina di venti milioni non fa altro che accrescere l’orgoglio nazionale e rischia di avere l’effetto opposto.

La deforestazione rappresenta il 20% di tutte le emissioni climalteranti, più dell’intero sistema dei trasporti che rappresenta il 13%. Queste due percentuali ci dicono come sia distorta la percezione collettiva; l’Europa continua a restringere gli standard ambientali, ma ormai i suoi abitanti “ambientalmente più consapevoli” sono una goccia in un mare di persone affamate di consumi, di case più grandi, di carne, di automobili e di un modello di vita ad alta intensità ambientale. La tecnologia aiuta, ma non è in grado di compensare l’onda d’urto che arriva dal nuovo mondo. Ci vogliono nuovi strumenti, ragionare solo di riduzione delle emissioni non basta, anche perché si è visto che non funziona.
Serve un piano Marshall per piantumare il mondo, per rendere verdi i deserti, per ripristinare l’Amazzonia dopo che anni di pascolo rendono il suolo morto, per trasformare l’ambiente in una grande leva per trovare un nuovo equilibrio.
Si può fare, si deve fare, non so se si farà; il genere umano è come se fosse in una pentola di acqua. All’inizio l’acqua era gelida, poi si è scaldata un pochino e tutti erano contenti, ora comincia a essere un pò calda, ma è solo un fastidio, il rischio è quello di finire rapidamente bolliti.

Qualcosa si muove, ma la velocità di distruzione è molto maggiore di quella, pur fenomenale di rinascita della foresta. Sui suoli degradati da anni di pascolo, il governo brasiliano consente la piantumazione di palme per la produzione del famoso e vituperato olio; il Brasile è marginale nel mercato dell’olio di palma (rappresenta solo l’1% del mercato mondiale) ed è poco competitivo rispetto ai colossi asiatici di Malesia e Indonesia. Ma l’olio di palma brasiliano, proprio per la sua scarsa competitività economica sta individuando nuove strade interessanti, se liberate dai pregiudizi che, in maniera ipocrita, avvolgono questa filiera.
Visitando Agropalma, una delle aziende più interessanti, mi viene raccontato il loro processo produttivo, che invece di erbicidi utilizza manodopera adeguatamente retribuita, che usa una quantità di fertilizzanti molto inferiore rispetto alla media di settore e per una porzione in crescita utilizza solo fertilizzanti organici. Riesce in questo modo a vendere il proprio prodotto, una commodity in tutto il mondo ormai, con un extra price del 50% a un colosso della cosmetica naturale brasiliano. Inoltre rimango a bocca aperta quando mi portano a visitare la riserva legale (così si chiama in quanto obbligatoria per i produttori di Palm oil, pari all’80% della superficie dedicata alla produzione) dove bisogna stare attenti ai giaguari e all’anaconda e dove le università vengono a studiare le decine di specie di uccelli in via di estinzione presenti in quest’area. Che sorpresa, in una azienda che produce olio di palma, che, utile ricordarlo, è al secondo posto, dopo l’eucalipto, per capacità di stoccaggio di anidride carbonica, fattore anche questo che andrebbe considerato quando si parla di lotta alla concentrazione di gas climalteranti in atmosfera.

Ho fatto l’esempio del palm oil per fornire uno spunto di riflessione. Non so come sarà l’Amazzonia tra 10, 50 o 100 anni, se esisterà ancora come la vediamo adesso, se saremo in grado di conservarla come un santuario della biodiversità del pianeta, come sarebbe giusto e bello, oppure se avremo piegato anche quest’enorme territorio al dominio del modello di produzione e consumo classico. Non lo so, ma in ogni caso avere un quadro più chiaro, meno ideologico e più ampio aiuta a capire e a immaginare il futuro che avremo, e che desideriamo.

Francesco Bertolini Università Bocconi, Milano